Un testo portato in scena con sorprendente soavità, con una leggerezza del corpo, dell'interpretazione, dell'intenzione e della persona.
Sola sulla scena vuota, ad eccezione di una sedia sulla quale son poggiati un capo di vestiario e un foglio di carta, una giovane donna si guarda intorno pensando tra sé, distratta dai propri pensieri, accompagnandosi con una bottiglia semivuota di grappa ambrata.
Guendaline si versa del liquore, beve, guarda il pubblico e inizia a rivolgerglisi anche se in realtà parla con se stessa. Sono considerazioni piane, semplici, quasi banali se non riguardassero la più profonda natura di essere persona, una persona di sesso femminile con tutto il portato di aspettative sociali e dover essere.
Guendaline si interroga e ci interroga a partire da una difficoltà fisica quella di portare a termine una gravidanza. Quel bambino l'ho perso. Non una vera e propria sterilità, come attestato nel programma di sala, una difficoltà a essere naturalmente capaci di condurre a termine una gravidanza.
La pesantezza di questo stato fisico, clinico e esistenziale è contrapposta a dai passi di danza coi quali Guendaline sostiene il peso di una pressione sociale che all'inizio fatica a riconoscere e che durante il monologo abbraccia riuscendo finalmente a smarcarsi.
Come nelle stazioni di una via crucis, laica e all'inverso, che dalla crocifissione di un ruolo al quale è costretta si sottrae chiodo dopo chiodo, in un percorso di autoscoperta e riappropriazione di sè, durante il quale il sangue mestruale smette di essere il segno di una sconfitta, la prova di una fertilità che non attecchisce, e diventa il segno tangibile di essere in vita, secondo una determinata datità biologica, Guendaline si riappropria del proprio corpo sessuato e non si chiede più come nell'incipit perchè mai un uomo dovrebbe stare con me se sono sterile ma individua le trappole culturali subite dalle donne divenute madri (tu non puoi capire non sei madre) e quelle degli uomini che dinanzi a quel suo sangue mestruale provano disgusto e paura (che è sempre un modo per controllare quel che loro non hanno).
La forza di Barrique Premier Chapitre sta nella dirompenza di un testo portato in scena con sorprendente soavità, con una leggerezza del corpo, dell'interpretazione, dell'intenzione e della persona. Le scoperte dentro e fuori di sé fatte dal suo personaggio sono portate sulla scena da Veronique Vergari (una bionda che fa l'artista, come si legge nel suo sito internet nel quale potrete scoprire anche le sue fotografie) con grandissima intelligenza portando la forma monologo del teatro fino ai confini dell'istallazione d'arte come quando Guendaline offre ai e alle presenti un bicchierino (fornito prima di accedere alla gradinata dove ci si assiepa qui al Fringe) di grappa metodo Barrique (fatta riposare in un legno aromatizzante).
Un percorso di autoliberazione quello di Guendaline le domande alla fine del quale approda inchiodano ognuno e ognuna di noi alla propria responsabilità collettiva e individuale: perché ho paura a dirmi donna? Perché posso essere infibulata, plagiata, schiavizzata, stuprata, uccisa. Eppure sono una donna e mi piace!
Barrique Premiére Chapitre è un magnifico regalo fatto dalla sua interprete e autrice al Roma Fringe e al pubblico che ha la fortuna di vederlo, uno spettacolo di teatro per il teatro, quel rito collettivo nel quale uomini e donne si confrontano tra palco e platea ragionando insieme sul bene comune della politica che è quella vita nella città della quale ci si dimentica sempre più spesso scopi funzioni e responsabilità.